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  • venticinquanta

Quale antidoto al greenwashing della sostenibilità?



Avete mai fatto caso che negli anni recenti abbiamo assistito ad una vera e propria proliferazione di prodotti che affermano di essere sostenibili?


Termini come Biologico, Biodinamico, Da Agricoltura integrata, Senza olio di Palma, Senza additivi, Equo e solidale, da agricoltura sostenibile, Filiera certificata, cresciuto all’aperto, No-OGM, Vegan, ecc.. sono ormai diventati di uso comune, di solito abbinati ad un sistema di etichettatura in cui abbondano fiori, foglie, alberi, api ed altri simboli che nell’immaginario collettivo significano più o meno “naturale”, più o meno “giusto”, più o meno “green”.


Una giungla in cui la prima vittima siamo noi che vorremmo fare acquisti davvero “sostenibili” e che, nell’eccesso di informazioni in cui siamo sommersi, finiamo per essere disinformati. E a volte truffati!


E la seconda vittima è proprio la parola “sostenibile”, svuotata ormai da ogni significato concreto e sostituita dallo storytelling del green.


Il Biologico è davvero sostenibile?

A creare ulteriore confusione, anche il mondo accademico è diviso sul reale significato e sulla reale sostenibilità di certe pratiche. Lo stesso biologico ha creato una netta divisione: da una parte coloro che lo considerano solo una prima fase di una vera transizione agro-ecologica, necessaria per affrontare le sfide epocali del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità e della disuguaglianza sociale; dall’altra, al contrario, coloro che sostengono che il biologico non sarà mai in grado di sfamare la crescente popolazione mondiale e che costituisca un approccio “ideologico” che impedisce il vero progresso scientifico e l’innovazione (vedi ad es. l’utilizzo di OGM o NBT – New Breeding Technologies).

Non volendo entrare nel merito del dibattito scientifico, è del tutto evidente riconoscere - per persone di buon senso - che ci debba essere un limite alla pressione che i nostri sistemi esercitano sia sull’ecologia mondiale che sulla disuguaglianza sociale, e che non possiamo continuare a sfruttare e depauperare risorse, che si tratti di lavoratori o di risorse naturali, di quella che è la nostra comune casa, il pianeta Terra.


Responsibility is the new Sustainability

Proviamo allora a sostituire l’aggettivo “sostenibile” con l’aggettivo “responsabile”, che ci ricorda come la filiera agroalimentare debba mirare a soddisfare i bisogni delle generazioni future oltre che quelle attuali.

I principi di una produzione agricola responsabile dovrebbero essere basati su:

  • Sostenibilità ambientale: la produzione agricola dovrebbe essere gestita in modo da preservare le risorse naturali e l'ambiente.

  • Efficienza economica: la produzione agricola dovrebbe essere economicamente sostenibile e redditizia.

  • Responsabilità sociale: la produzione agricola dovrebbe essere socialmente responsabile e garantire condizioni di lavoro eque e dignitose per tutti.

Tutto questo è più facile a dirsi che a farsi.


Come faccio a comunicare che un produttore è davvero “responsabile” e come faccio a trasferire questa informazione al consumatore finale nel mare magnum della disinformazione e dello storytelling green?


Certificazione vs Partecipazione

Una possibile soluzione è la certificazione terza (ovvero effettuata ad opera di organismi preposti) che però soffre di alcune limitazioni e contraddizioni:

  1. Di solito la certificazione affronta solo alcuni aspetti della responsabilità concentrandosi ora su un tema, ora sull’altro (ad es. sostenibilità ambientale, sostenibilità sociale, filiera corta, rispetto animale, ecc..)

  2. Di solito il controllore è pagato dal controllato il che costituisce un palese conflitto di interessi e periodicamente assistiamo infatti a scandali che denotano scarso controllo - se non addirittura la compiacenza - da parte degli organismi controllori

  3. La certificazione implica un carico burocratico ed un costo spesso insostenibili per le piccole aziende e la burocrazia spesso prevale sulle verifiche sul campo

La garanzia partecipata è invece un sistema di certificazione alternativo alla certificazione terza che coinvolge i diversi attori della filiera agroalimentare, tra cui agricoltori, consumatori, operatori commerciali e associazioni.


Si basa su un approccio partecipativo e collaborativo, in cui tutti gli attori della filiera lavorano insieme per garantire la qualità e la sostenibilità dei prodotti. Il sistema è gestito da un'assemblea che definisce gli standard ed i metodi di controllo.


I vantaggi della garanzia partecipata rispetto alle certificazioni terze sono molteplici:

  • Partecipazione: il sistema è aperto a tutti gli attori della filiera (di solito filiera locale o corta), che contribuiscono alla definizione degli standard e dei metodi di controllo assicurando che siano più vicini alle esigenze dei consumatori e degli operatori della filiera.

  • Collaborazione: il sistema promuove la collaborazione tra gli attori della filiera, che lavorano insieme per garantire la qualità e la sostenibilità dei prodotti. Ciò può portare a un miglioramento della qualità dei prodotti e a un aumento della sostenibilità della produzione agricola.

  • Adattabilità: il sistema è flessibile e può essere adattato alle esigenze specifiche di ciascuna realtà. Ciò lo rende più adatto alle piccole e medie imprese agricole.

  • Costo: la garanzia partecipata è spesso più economica e meno burocratica delle certificazioni terze.


Comunità del Cibo Locali

In Italia vi sono molti esempi virtuosi di comunità locali che hanno adottato sistemi di garanzia partecipata in alternativa o in complemento alla certificazione terza.


Un esempio fra tutti è il DES di Parma, nato nel 2003 da una rete di operatori del consumo critico e l’Economia Solidale (ES), e gruppi di acquisto solidali (GAS) che decidono di lavorare insieme per valorizzare e promuovere pratiche di economia solidale fondate sulle relazioni fiduciarie e solidali fra i soggetti della comunità.


Il DES Parma oggi conta circa 30 aziende agricole, 3 consorzi, 5 tra associazioni e cooperative sociali, circa 30 GAS per un totale di oltre 1000 famiglie che acquistano prodotti per un valore di circa mezzo milione di € / anno! Un successo enorme!


In Italia oggi esistono oltre 180 Distretti del Cibo ufficialmente riconosciuti dal ministero e molti di questi - seppur ciascuno con una propria peculiarità - hanno come obiettivo l'implementazione di politiche territoriali volte alla promozione della tipicità e della cultura locale, alla salvaguardia del territorio e del paesaggio, alla realizzazioni di filiere locali e corte, al turismo sostenibile e all'integrazione sociale.

Inoltre oggi esistono centinaia di altre associazioni di attori di filiera locale (ad es i Biodistretti INNER o AIAB), che fondano i propri statuti sui concetti di tipicità, tradizione, sostenibilità e solidarietà.


Se tutte quante queste comunità locali adottassero sistemi di garanzia partecipata - promuovendosi a garanti delle buone pratiche ed etiche territoriali - e se queste fossero facilmente raggiungibili tramite una piattaforma tecnologica, i consumatori non avrebbero più dubbi su quali prodotti acquistare.

E con i loro acquisti premierebbero le pratiche virtuose e contribuirebbero a creare una solida rete di comunità locali realmente sostenibili.


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